Aggregazione
βA inibita da gangliosidi nella malattia di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XXII – 05 aprile 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’aggregazione dei peptidi
β-amiloidi (βA: βA42/βA40) a formare fibrille,
contribuendo alla formazione delle placche amiloidi, uno dei due
contrassegni istologici della malattia di Alzheimer – l’altro essendo la
degenerazione neurofibrillare tau intraneuronica – è stata studiata approfonditamente
negli ultimi decenni, così che oggi si conoscono numerosi dettagli sui
meccanismi molecolari implicati nella sequenza patogenetica. Più di recente
sono state individuate alcune biomolecole in grado di accelerare questo
processo e altre capaci di inibire la formazione delle placche.
I lipidi, che sono
onnipresenti nella costituzione delle cellule e in tutte le membrane cellulari,
svolgono un ruolo fondamentale nell’aggregazione delle proteine, dunque si
indaga per giungere a una conoscenza specifica e analitica per tipologia
molecolare circa la possibile facilitazione alla formazione degli aggregati
patologici.
Zenon Toprakcioglu
e Tuomas P. J. Knowles del Dipartimento di Chimica e Akhila K. Jayaram del Dipartimento
di Fisica dell’Università di Cambridge hanno focalizzato la loro attenzione
sperimentale sui lipidi gangliosidici, notoriamente
abbondanti nei neuroni cerebrali. In particolare, hanno sottoposto a vaglio
sperimentale il modo in cui i gangliosidi dei neuroni encefalici possono
influenzare la cinetica dell’aggregazione sia dei peptidi βA42 sia dei
peptidi βA40.
I risultati dello studio
sono rilevanti e di sicuro interesse nella conoscenza della patologia della più
grave forma di demenza neurodegenerativa.
(Toprakcioglu Z., Ganglioside lipids inhibit the
aggregation of the Alzheimer’s amyloid-β peptide.
Royal Society of Chemistry
Chemical Biology – Epub ahead of print doi: 10.1039/d4cb00189c, 2025).
La provenienza degli autori è la seguente: Yusuf Hamied Department of Chemistry,
University of Cambridge, Cambridge (Regno Unito); Cavendish Laboratory,
Department of Physics, University of Cambridge,
Cambridge (Regno Unito).
Come abbiamo fatto altre volte nel 2023[1], nel
2024[2], il
mese scorso[3]
e più di recente[4],
cogliamo l’occasione di questa recensione per introdurre il lettore non
specialista alla malattia di Alzheimer e proporre alcuni importanti risultati
della ricerca su questa patologia neurodegenerativa, attingendo prevalentemente
a un nostro articolo del 2022, che trae da altri precedenti[5]-[6].
Si riporta lo
storico brano di Alois Alzheimer che descrive clinicamente lo stato della
paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato gelosia verso suo marito
come primo segno rilevante della malattia. Presto si è potuta notare una perdita
di memoria rapidamente ingravescente. Non era in grado di orientarsi nel suo
appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e li nascondeva. A volte
pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare”[7]. Ricordiamo
che Alzheimer con queste parole introdusse il caso paradigmatico di una donna
ammalata di demenza presenile con sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi
anni: nei casi familiari della malattia la prognosi è ancora la stessa.
Nel 1906 il neuropatologo tedesco Alois
Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni
sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante
malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento
mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive
due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le
placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel
1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum
movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[8].
All’originario lavoro di Alzheimer,
Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche molto
dettagliate[9] e i suoi
studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni
rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in Germania
“morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di
Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma
grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di
Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo
la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[10].
Anche se l’identificazione di questa
nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di neurologi e
ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità medica
perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua
eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica
hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la
conoscenza e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed
inesorabile perdita delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che
termina con esito infausto.
“Si può dire che il primo reale
progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner
dell’Università della California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale
amiloide delle placche un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui
si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).
Poco tempo dopo quattro diversi gruppi
di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il peptide
origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del peptide
in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare, sorpresero
le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente individuato.
Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di membrana cui
si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein o
βAPP. […]
Nel 1991, studiando il DNA di una
famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s Hospital Medical School di
Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò che la
mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA codificante il
polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo altri studi
indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di Alzheimer il
cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa correlazione era
molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti affetti da sindrome di
Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a lungo, invariabilmente
sviluppano i sintomi di una patologia simile all’Alzheimer.
L’idea che il peptide Aβ fosse all’origine
della cascata di eventi determinante la progressione della malattia era ormai
opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati genetici
sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e propria scuola
di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei maggiori
esponenti. […]
Nel 1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia
β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di suscettibilità per lo
sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si
trattava del gene per l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè
una variante di una lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]
La teoria dell’amiloide sembrò avere una
conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi
collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2.
Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma
della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la
sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto
grave. […]
Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista di
Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto A2M,
un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo gene
fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da
parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del
valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses,
il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma 12, addirittura registrando
un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era convinto della mancanza di un
legame diretto con la patologia. […]
Il precursore della proteina
β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una
proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due
estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra,
la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide
beta-amiloide.
La funzione fisiologica non è nota[11]
ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due
diverse modalità. […]
La prima
modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere
dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà
origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa modalità, ossia la scissione
mediante
α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non
patogeno.
La seconda
modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima tappa, in
questo caso è la β-secretasi:
uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP,
sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del
peptide β-amiloide[12].
La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40
aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa
piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che
determina la formazione delle placche”[13].
Queste nozioni costituiscono ormai una base
consolidata delle conoscenze patologiche sul gravissimo e ancora inguaribile
processo neurodegenerativo. Riportiamo ora, qui di seguito, elementi di più
recente acquisizione tratti dall’introduzione a uno studio presentato tre anni
fa[14].
La malattia di Alzheimer, la più comune[15] e grave demenza neurodegenerativa,
costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici
e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia,
che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e
prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può
essere precoce, presenile[16], nell’età media della vita oppure
in età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può
presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e
Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due, presentandosi come
tipo con placche soltanto (plaque only type) o come
taupatia senza placche evidenti associata a demenza[17].
La maggior parte dei ricercatori che ritiene
irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della
progressione in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum
movens etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto
biochimico fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di
conoscenza chiave per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di
prevenzione) specifici per le singole forme.
In ogni caso, lo studio della genetica è importante
perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza,
anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del
genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta
soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie
molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la
comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni
di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St.
George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della
malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor
protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al
gene βA. Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni
alzheimeriane – in passato interpretate come invecchiamento precoce – che si
rilevano nel cervello di tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21
che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie del cromosoma 21, producono
amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel
dato patologico interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del
cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una
piccolissima frazione di casi eredo-familiari di malattia di Alzheimer che, a
loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In altre stirpi
familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione, ereditati
verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono state
identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato sul
cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari, e
della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[18].
La presenza di amiloide aberrante da sola non è in
grado nel resto della popolazione di causare la malattia neurodegenerativa,
così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad
essere scoperto fu “Apo E”[19], un regolatore del metabolismo
lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche
della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio
di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme
della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se decisamente più raro delle
varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di
sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è
responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale
ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per
la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi non hanno
ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra variazione genica, implicata
sicuramente in forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata
presso il sito dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1
codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2, oltre a partecipare
alla degradazione proteasomica.
L’importanza dello studio della genetica
si può desumere dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti
dall’analisi di interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza
neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si
cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni e dal
cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali scoprì placche
amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo caso,
pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato
dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto
dal plaque only type[20]. Nel suo cervello, oltre ai segni
generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli
macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche
senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza
della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a
quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati
nella ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in
due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con
capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”,
rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca
dei discendenti di Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di
demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della
β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia
quelli generati dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza uguale
o superiore a 42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti
in degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau”
ritenevano che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau
fosse responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e
consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle
sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda
tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi
neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre
intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica
Psichiatrica dell’Università di Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare
i discendenti del secondo paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo
genetico secondo le acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono
l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[21]. I ricercatori fecero un lavoro
straordinario: grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle
famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino
al 1670, ed elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava
1403 discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello
studio, la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico
dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e
colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1,
PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già identificato come
patologico[22]. Anche se questo studio non
identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla
demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum
movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano
nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione
fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare
neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti
clinici senza la distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra
scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non
differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella
patogenesi.
Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire
i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali
e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati
si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è
proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno
suggerito nuovi progetti di ricerca[23].
Ritorniamo ora allo studio di Zenon Toprakcioglu, Akhila
K. Jayaram e Tuomas P. J.
Knowles qui recensito.
I tre ricercatori hanno impiegato una varietà di saggi
biofisici per caratterizzare gli effetti dei lipidi gangliosidici
sul processo di aggregazione dei peptidi βA. Attraverso l’analisi cinetica, i tre ricercatori hanno
dimostrato che 1) il tasso di nucleazione primaria è altamente influenzato
dall’aggiunta di gangliosidi, 2) che questi lipidi inficiano il processo di
aggregazione dei peptidi amiloidogenici βA42, e 3) inibiscono in modo
assoluto la possibilità di aggregazione dei peptidi βA40.
L’osservazione sperimentale
ha individuato la formazione di complessi βA-ganglioside, che
potenzialmente perturbano la via di aggregazione determinando l’effetto di una
cinetica ritardata.
Presi insieme tutti i
risultati ottenuti, per il cui dettaglio si rinvia al testo integrale dello
studio originale, forniscono una descrizione quantitativa di come molecole
lipidiche quali i gangliosidi possano inibire l’aggregazione di peptidi βA
e gettano luce sui fattori chiave che controllano questi processi.
Considerando il fatto ben
noto in neurogerontologia, ossia che l’invecchiamento
è generalmente associato a un declino dei livelli di gangliosidi nei neuroni, i
risultati di questo lavoro suggeriscono lo studio di strategie che consentano
una valutazione e una sorveglianza del livello dei gangliosidi, quale nuovo
approccio alla prevenzione dell’aggregazione βA.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-05 aprile 2025
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 17-06-23 Scoperto nella malattia di Alzheimer uno stato
protettivo della microglia; Note e Notizie 24-06-23 Scoperte popolazioni cellulari associate alla malattia
di Alzheimer.
[2] Note e Notizie 16-11-24 Cambi trascrittomici astrocitari nella malattia di
Alzheimer; Note e Notizie 07-12-24 Come prevenire il deficit cognitivo nella malattia di
Alzheimer.
[3] Note e
Notizie 01-02-25 Sonno REM
ritardato e malattia di Alzheimer; Note e Notizie 08-02-25 FGF23 delle cellule β del
pancreas protegge dalla malattia di Alzheimer.
[4] Note e Notizie 01-03-25 Alterazioni intestinali nella malattia di Alzheimer
studiate con XPCT; Note e Notizie 08-03-25 NU9 contrasta la patogenesi della malattia di
Alzheimer; Note e Notizie 22-03-25 LMO4 del CSF nuovo marker della malattia di Alzheimer; Notizie
29-03-25 testosterone
nella differenza di genere della malattia di Alzheimer.
[5] Note e Notizie 25-06-22 La malattia di Alzheimer potrà essere trattata con
ERp57. Per lo studio su ERp57 si rinvia
alla lettura di questa nota, perché in questo testo non è stata ripresa la
recensione dello studio di Di Risola e colleghi del
giugno 2022.
[6] V. anche: Note e Notizie
07-10-22 Atlante a
singola cellula rivela dati per cognizione e Alzheimer.
[7] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque
only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[8]
Alzheimer A., Ueber eigenartige
Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.
[9]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren
Lebensalters, Hist. und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[10]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der
Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[11] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli
fisiologici della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note
e Notizie” di questi anni.
[12] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).
[13] Perrella G., op. cit., idem.
[14] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[15] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[16] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[17] L’Adams e Victor’s, ossia
l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata
la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in
passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois
Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa
si diagnosticavano come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce)
propone di considerare related but separable le varie forme
eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of
Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th
edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non
tutte le volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con
punteggi dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla
grave patologia neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di
Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai
coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o
sistemi equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei
casi non dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche
indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la
paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la
degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione
lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[18]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[19] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la
dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle
conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.
[20] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[21] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[22] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[23] Si veda Note e Notizie
24-04-21 Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.